Per abolire le distanze con l’altro bisogna provare Compassione.

Cari lettori e lettrici di Cronaca e Legalità,la password che vi propongo questa settimana è Compassione. La parola compassione deriva dal latino compassio –onis, che traduce a sua volta il greco συμπάϑεια, e significa letteralmente “soffrire con”. In altri termini, compassione indica “il sentimento di chi, riconoscendo il dolore altrui, lo comprende, mostrando solidarietà con chi soffre e, anche ove non giunga a condividerne la pena, desidera lenirne le sofferenze”. (Enciclopedia filosofica Bompiani, p. 2035). Nel corso della storia del pensiero filosofico occidentale, i pensatori si sono divisi intorno a questo a questo tema, schierandosi chi a favore e chi contro. C’è chi l’ha definita come un’attitudine positiva dell’essere umano (Aristotele, Sant’Agostino, San Tommaso D’aquino, Shopenhauer, Max Scheler) e chi l’ha intesa, invece, come una debolezza dell’animo umano (gli Stoici ritenevano che dinanzi alla propria e altrui sorte bisogna rimanere imperturbabili e aspirare all’apatia) e l’ha criticata sarcasticamente, come Hegel che la riteneva un “rincrescimento […] tipico di donnicciole dalla mentalità provinciale” (Estetica, p. 187). C’è stato persino chi l’ha trasformata, ad esempio Rousseau, intendendola non come interessamento per una persona concreta sofferente, ma come amore generale universale per gli uomini e l’umanità. Una delle pagine più belle che mi è capitato di leggere sulla compassione, è quella scritta da una filosofa ebrea tedesca, Hanna Arendt, costretta all’esilio negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni naziste. Nell’opera “Sulla rivoluzione” – profonda analisi delle due grandi rivoluzioni che hanno segnato l’epoca moderna, la rivoluzione francese e la rivoluzione americana – ella afferma:“La compassione, ossia l’esser colpiti dalle sofferenze di qualcun altro […], per sua stessa natura non può essere suscitata dalle sofferenze di un’intera classe o di un intero popolo, per non dir poi di tutta l’umanità. Non può estendersi al di là delle sofferenze di una singola persona e restare egualmente ciò che si presume che sia, un patire insieme. […] Essa, […] non dissimile dall’amore, abolisce la distanza, l’intervallo che sempre esiste nei rapporti umani; […] La compassione abolisce la distanza, ossia quello spazio terreno fra gli uomini in cui si svolgono gli affari politici e si colloca nell’interno campo delle vicende umane, essa resta irrilevante e senza conseguenze dal punto di vista politico. […] la compassione, […] è rivolta soltanto, e con appassionata intensità, verso il singolo uomo che soffre; essa parla solo nella misura in cui deve rispondere direttamente ai suoni e ai gesti, ossia alle pure e semplici espressioni con cui la sofferenza diviene udibile e visibile nel mondo”. (Sulla Rivoluzione, pp. 90-92).Il tema della compassione è presente anche nelle religioni. Sappiamo come il Buddismo ne faccia il centro della propria etica, e come nell’Islam, Allah venga definito il “Misericordioso, il Compassionevole, il Clemente”. Nel Cristianesimo, in particolare, la compassione e la misericordia rivestono un ruolo centrale e fondamentale. Dio, infatti, nelle Bibbia è definito come “Misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 103), è Colui del quale si dice: “Eppure tu vedi l’affanno e il dolore, li guardi e li prendi nelle tue mani” (Sal 10,14). Non un Dio freddo, quindi, distaccato che sta ad osservare i drammi umani, ma un Dio che si coinvolge pienamente nelle sofferenze delle sue creature, come testimonia anche la rivelazione che Dio fa a Mosè del suo nome. Quando, infatti, Mosè chiede a Dio qual è il suo nome, affinché recandosi dagli Israeliti per condurli fuori dall’Egitto lo possa dire loro, Egli risponde: “Io sono Colui che sono”, o meglio, traducendo alla lettera il testo ebraico, “Io sono Colui che ci sono stato, ci sono e ci sarò” (Es 3,14). Un nome, dunque, che esprime vicinanza, prossimità a chi è nella prova e nel dolore.Così anche nel Nuovo Testamento, Gesù – che Giovanni Paolo II, definisce nell’enciclica Dives in Misericordia, la misericordia di Dio fattasi carne – manifesta spesso verso le persone che incontra profonda compassione e misericordia. Ad esempio nel Vangelo secondo Marco, dinanzi ad un lebbroso che gli chiede di essere risanato, l’evangelista nota che Gesù: “Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!” (Mc 1, 41). Oppure nel vangelo di Luca, dinanzi ad una povera vedova della cittadina di Nain, che accompagnava l’unico figlio giovane al sepolcro, Gesù: “Vedendola,[…] fu preso da grande compassione per lei e le disse: Non piangere!” (Lc 7,13) e risuscita il giovane restituendolo alla madre. Sempre nel vangelo di Luca troviamo l’icona per eccellenza della compassione rappresentata dalla parabola del Buon Samaritano. Questi, infatti, al contrario del Levita e del Sacerdote che vedono l’uomo incappato nei briganti e passano oltre, “passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione”(Lc10,33).Compassione è dunque una parola che dobbiamo aggiungere al vocabolario della nostra vita quotidiana, proprio come quando scriviamo al computer e se una parola non è conosciuta dal programma di scrittura ci viene chiesto di inserirla. È una parola che dobbiamo porre a base del nostro vivere perché tutti incontriamo quotidianamente la sofferenza, il dolore degli altri (familiari, amici, conoscenti e non) e dinanzi al dolore altrui non possiamo rimanere freddi e indifferenti, come se non ci toccasse! Qualcuno ha detto che oggi siamo esperti nello zapping e siamo diventati talmente abili nel farlo, da estenderlo anche al dolore e alla sofferenza che incrociamo ogni giorno, accorgendoci per un attimo di ciò che gli altri vivono e poi tirando dritti per la nostra strada, allo stesso modo di come si guarda per un attimo un programma in televisione e poi si cambia canale. E invece la compassione è un’ atteggiamento del cuore da riscoprire e vivere, in quanto è “La massima e forse unica legge di vita per l’intera umanità” (Dostoiewskij – L’Idiota p. 298). Concludo lasciandovi le parole di Papa Francesco durante un udienza del mercoledì a San Pietro: “Dentro una cultura dell’indifferenza, che finisce non di rado per essere spietata, il nostro stile di vita sia invece colmo di pietà, di empatia, di compassione, di misericordia, attinte ogni giorno dal pozzo della preghiera”.